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Terreni di gioco

Le montagne, le pareti, gli itinerari non sono nostri, degli alpinisti intendo, ma bensì sono della collettività

Pochi giorni fa ero al Bar Monica a San martino in val Masino. Con una Guinness scura in mano parlavo con il “Piri” alias Simone Pedeferri vera icona dell’arrampicata in Val di Mello. Ho provato ad esprimere le mie idee sulla questione dell’attrezzatura degli itinerari, dalle vie ferrate agli itinerari di alta montagna.

Ho esordito dicendo che le montagne, le pareti, gli itinerari non sono nostri, degli alpinisti intendo, ma bensì sono della collettività. In somma sono un bene pubblico, come l’acqua. Il nostro compito di esperti è quello di vigilare e di preservare. Come? Dobbiamo parlarne.

Durante questa breve e autunnale estate mi sono capitati alcuni episodi che mi hanno risvegliato quel pensiero che spesso ultimamente fa capolino nel vortice continuo di tutti gli altri pensieri. Ve ne voglio raccontare un paio. All’inizio di giugno, unica settimana con il bel tempo dell’estate, mi sono sentito con il compagno di tante avventure alpinistiche, Ermanno e ci siamo accordati per andare a ripetere una via sui Colodri ad Arco di Trento. I Colodri imponente bastionata di roccia che incombe sulla cittadina di Arco rappresenta certamente uno dei più significativi simboli della storia dell’arrampicata italiana e non solo. Correva l’anno 1979 e l’alpinismo e l’arrampicata stavano subendo una importante evoluzione, quasi una rivoluzione.

C’era Messner che saliva gli ottomila senza ossigeno e spesso in solitaria, Casarotto gli faceva eco dalla Patagonia con la salita del suo ardito pilastro sul Fitz Roy, Manolo saliva “Lucertola schizzofrenica” in Totoga, difficoltà fino al 6c con soli 9 chiodi in cinque lunghezze di corda. Ermanno e Aldo, due giovanotti poco più che ventenni, pieni di energie e di speranze alpinistiche, peraltro ampiamente mantenute, si accingevano a tracciare due fantastici itinerari su questo mini Capitan di calcare della valle del Sarca( Via del Bepi, Via Luca Sganzini).

Io dopo quasi quaranta anni ho percorso quelle linee con la curiosità di riscoprire sentieri antichi e la segreta volontà di contribuire a valorizzare quelle rocce. Uno di questi itinerari si chiama la “Via del Bepi”. Il Bepi era un vecchio che viveva in un rudere alla base dei Colodri ed era considerato il saggio della montagna. La via attacca nei pressi di una profonda spelonca stretta e lunga. Parto io. Il primo tiro che dal basso sembrava ostico e sprotetto si rivela invece sequenza da riflettere, con movimenti delicati e leggeri. Poi, mano a mano ci si alza, spuntano come per incanto i chiodi, che i due intrepidi hanno piantato allora fermandosi in equilibrio, con i piedi in spaccata, una mano sull’appiglio e l’altra che impugna il martello e punta il chiodo nella fessurina, per battere prima piano e successivamente con colpi sempre più vigorosi fino a comporre la melodia del “chiodo che entra giusto”.

La sosta è orribile sotto un tetto tetro.

Un ribattino con piastrina che ruota da cui pende un lungo cordino annerito e rigido cotto dagli anni e dalle intemperie. A destra un chiodo a U piantato dal basso verso l’alto. Guardo se posso aggiungere qualcosa di più moderno e rassicurante ma, a parte un friendino in un buco svasato, mi devo accontentare di collegare al meglio quelle schifezze e recuperare Ermanno. Quando arriva alla sosta, guarda la sosta, poi me e dice “Che schifo di sosta” Lo guardo anche io, sorrido “E’ vero, l’hai fatta tu” Il secondo tiro è duro seici, forse anche qualcosina in più e per provare a scalare in libera i chiodi che ci sono non ispirano per niente. Il terzo tiro è più facile, un diedro, bello ma dopo un po’ non sono sicuro se si va a sinistra oppure dritti. E’ a sinistra. Il quarto tiro ci perdiamo, adiamo troppo a destra e quando capiamo l’errore è tardi e decidiamo di scendere. Torniamo qualche giorno dopo e questa volta partiamo dall’alto dopo aver percorso la ferrata dei Colodri. Siamo armati di trapano e di tutto il resto.

La parola d’ordine è ristrutturare facendo emergere il più possibile lo spirito originale dei due apritori di cui uno è li presente. Riattrezziamo le soste con due Fix con anello, aggiungiamo 4/5 fix sui tiri la dove il rischio caduta comporterebbe conseguenze gravi. Cambiamo anche i cordini nelle clessidre e ci ripromettiamo di tornare in autunno con leverino e sega per completare l’operazione di pulizia.

Ci sentiamo molto orgogliosi del risultato di questo cantiere. Qualche giorno dopo torno con Dario, mio figlio, e Ivan e ci concentriamo solo sull’arrampicata. Un vero piacere. Ad Agosto ormai stufo di questa stagione monsonica, mi ritaglio quattro giorni. Ho convinto Sylvia, mia moglie, a farsi qualche ora di auto per visitare due gruppi montuosi del centro Italia. Gran Sasso e Sibillini. Al Gran Sasso facciamo base ad Intermesoli, paesino delizioso appena sotto Pietracamela e Prati di Tivo. Dormiamo in una piccola casetta di sasso con le finestrelle piccole e di legno. Una delle pareti interne è costituita dalla roccia calcarea della montagna. I gradini di legno che portano in camera da letto al piano di sopra sono inseriti direttamente nella roccia. Quasi una ferrata in casa. La mattina sveglia presto. Ho proposto a Sylvia di salire la “via dello spigolo a destra della crepa” sulla parete est del Corno Piccolo. I primi salitori Emilio Caruso, zio del mio grande amico Paolo, e Luigi Mario il mio primo maestro. Con lui ho fatto il mio primo corso di roccia e le esperienze più significative dei primi passi. La via è stata aperta il 5 luglio del 1959 e terminata due anni più tardi. Io allora avevo esattamente un mese. La via è bellissima un pezzo di dolomiti con roccia molto buona ma anche molto friabile. Da far ballare l’occhio, insomma. I chiodi sui tiri non sono un gran che.

Le soste testimoniano il degrado e l’incuria di chi ….no so..ma ci dovrà pure essere qualcuno che è interessato e responsabile della questione.

Adesso capisco anche perché in una giornata di sole scintillante e caldo, in tutta la parete del Corno piccolo, gli unici che arrampicano siamo io e la mia Sylvia.

Diversamente oggi su questa bella parete che per qualche verso mi ricorda la Sud della Marmolada non ci sarebbero nemmeno i fantasmi. Forse è anche per questo che l’alpinismo retrocede un po’ ogni anno così come succede ai ghiacciai. La storia finisce che sbaglio via e con dispiacere e un po’ di stizza per la mia distrazione decido di scendere e con le orecchie basse mi dileguo in valle. Poco dopo ritorno ad essere felice, il posto è bellissimo e di grande ispirazione. Ne valeva la pena comunque.

In Umbria, il giorno dopo, casualmente o forse no, incontro Gigi Mario per strada, gli facciamo una specie di assalto e gli racconto della mia avventura.

Mi prende un po’ in giro “E per Dio il presidente della commissione tecnica che sbaglia le vie”. Mi lamento dello stato dell’attrezzatura dell’itinerario. Scuote la testa rasata e mi racconta che dall’altro versante, sulle Spalle gli arrampicatori si sono sbizzarriti selvaggiamente mettendo fix dappertutto.

Mah non ci si capisce più niente ed è un vero grande peccato.

“Ma noi guide per dio dovremmo fare qualcosa!”

Andrea Sarchi Presidente Commissione tecnica nazionale