News dal mondo



"Alpinismo, Cai e Guide". Il pensiero del presidente Peterlongo pubblicato sulla rivista "Lo Zaino"

La Commissione centrale di alpinismo ha deciso di realizzare un approfondimento sul tema dell’alpinismo in vista del congresso degli Istruttori Nazionali del prossimo ottobre.

Mi è stato chiesto un intervento su questa rivista sul tema delle possibili collaborazioni e sinergie tra il Club Alpino Italiano e il Collegio Nazionale delle Guide Alpine Italiane per lo sviluppo dell’alpinismo nel nostro paese. Ho accettato con piacere poiché non ritengo scontato l’aver ricevuto questo invito.

Il tema è ovviamente impegnativo e molto aperto. Per non rischiare l’inutilità vorrei circoscrivere le mie riflessioni sulle pratiche dell’alpinismo su roccia e, solo limitatamente, di quello su neve e ghiaccio. E vorrei avanzare la proposta di pochi progetti pratici che, almeno in questo inizio, potrebbero interessare la collaborazione tra Il Club Alpino e le Guide Alpine.

Vorrei iniziare con alcune riflessioni che spero siano condivisibili.   

L’alpinismo non è una pratica univoca o almeno non lo è più per l’appassionato medio.  Si è specializzato e compartimentato in discipline (vie ferrate, arrampicata su roccia, cascate di ghiaccio, arrampicata in alta montagna, scialpinismo, sci fuoripista con l’ausilio di mezzi meccanici …) che hanno i propri appassionati e comunità di riferimento. Alcune sono diventate discipline sportive agonistiche e sono entrate o stanno entrando tra gli sport olimpici. In generale tutte sono accomunate dal crescente numero di praticanti e dalla motivazione di muoversi all’aria aperta e in un contesto che valorizzi il senso dell’avventura.   

L’alpinismo è, anche, un insieme di valori che accomunano o dovrebbero accomunare le diverse pratiche e che sono meritevoli di essere conservati.  E’ stato nominato, non da molto, patrimonio immateriale dell’Unesco.  

L’alpinismo è, in ultimo (ma per me solo per la presente elencazione), un patrimonio materiale di itinerari che percorrono le montagne e che è altrettanto meritevole di essere conservato e lasciato alle prossime generazioni. Auspicabilmente non solo come testimonianza “museale” delle imprese e dell’audacia degli alpinisti (di alcuni uomini che hanno segnato la storia dell’alpinismo). 

Penso che, non da oggi ma da almeno due decenni, ci troviamo ad affrontare due fenomeni complessi che stanno trasformando l’alpinismo dalla sua forma “classica” ad una che potremmo chiamare “sportiva” o che i più scettici potrebbero definire una non forma o uno stato di anomia.  

Il primo è l’inversione del rapporto di iniziazione all’alpinismo. Quando ho iniziato ad arrampicare, non avendo parenti alpinisti a cui affidarmi, i miei genitori mi hanno fatto iscrivere al corso di alpinismo della Scuola Graffer di Trento, ho cominciato ad andare in Dolomiti e nelle palestre di roccia della mia città (al tempo un luogo minore dove allenarsi). Poi ho “scoperto” l’arrampicata in falesia che di sportivo aveva poco. Penso che questo sia stato il percorso di molti miei coetanei a cavallo tra gli anni ottanta e novanta del ormai secolo passato (sic!).

Chi oggi si avvicina all’arrampicata non trova più “disponibile” questo percorso. Il numero di persone che arrampicano è aumentano, ma il modo in cui si avvicinano all’arrampicata ha cambiato direzione: dalla falesia e, in particolare, dalle palestre indoor all’alpinismo. E, in modo ancora molto disperso in termini di luoghi, in numeri limitati.

Il secondo è il cambiamento climatico e l’evidente degrado delle condizioni della montagna (soprattutto di quella alta). Cominciamo a parlare di versanti o itinerari alpinistici non più possibili o difficilmente frequentabili se non in periodi limitati e con molta attenzione. 

Per quanto questi fenomeni non siano correlabili, la conseguenza evidente di entrambi è che molti itinerari e molte montagne stanno subendo o potranno subire nel futuro un processo di abbandono (o minor frequentazione), degrado e conseguente ulteriore abbandono. A fronte del sovraffollamento di aree o itinerari che per le loro caratteristiche vedono affluenze e picchi di frequentazione (stagionali e nei fine settimana) che diventano pericolosi.      

Prendersi cura delle montagne e del patrimonio materiale e immateriale espresso dalla pratica dell’alpinismo è uno dei compiti più importanti che spetta alle nostre associazioni (indipendentemente dalla forma in cui è svolto, professionale o volontaria). Altrettanto importante è prendere una posizione di merito e farsi interpreti del turismo dell’alta montagna, dei suoi trend,  dei suoi modi di frequentazione e utilizzo. Se non lo facciamo o lo facciamo “sottovoce”, lo faranno altri soggetti.

In questo momento la mia personale posizione è che il modo corretto di frequentare la montagna sia basata sul rispetto dell’ambiente (se vogliamo possiamo anche chiamarla sostenibilità ambientale), un’etica trasparente e consapevole che non spinga oltre il limiti personale tecnico e umano, che non finisca in errori grossolani causati dalla poca conoscenza dei fenomeni naturali della montagna e dalla sopravalutazione delle proprie capacità (l’inglese “overconfidence”) e impegni di conseguenza  risorse umane ed economiche in soccorsi non necessari. 

Su questi temi penso ci siano possibilità di avviare concreti progetti di comune interesse.  Nel recente passato in forma locale ci sono già state alcune iniziative che hanno avuto apprezzamento e che potrebbero essere usati come modelli virtuosi. Penso alla rivisitazione e risistemazione delle falesie in Lombardia e nella Valle del Sarca e di alcune vie alpinistiche nella Grigna Meridionale e in Corna di Medale e alle vie normali nei gruppi dolomitici del Brenta e delle Pale di San Martino. E oggi il progetto di risistemazione delle falesie italiane proposto dalla Commissione centrale di alpinismo e finanziato dal Consiglio centrale del Cai.

Tutti questi progetti sono accomunati dalla volontà di permettere “un’offerta” più ampia delle possibilità del territorio e una frequentazione “sicura” delle falesie e delle vie alpinistiche, per quanto possibile. Dove “sicuro” significa cercare di minimizzare i pericoli ambientali più frequenti attraverso le opere di disgaggio, pulizia e sostituzione del materiale alpinistico (chiodi, cunei, cordoni, tasselli meccanici, ecc) che si usurano e perdono di affidabilità. Mentre non significa sottrarre gli alpinisti alla personale responsabilità del controllo dell’ambiente (“cosa sta succedendo intorno a me?”) e dell’uso delle attrezzature e delle tecniche alpinistiche (“so usare in maniera appropriata il materiale che ho addosso?”). 

So che questi progetti hanno toccato e toccano sensibilità e storie personali e suscitano dibattiti anche accesi. Ma se qualcosa di significativo è stato fatto fino ad oggi anche in zone con una lunga tradizione alpinistica, ciò vuol dire che possono essere estesi e portati avanti.

Perché abbiano successo, ovvero trovino più apprezzamenti che polemiche, sono necessari competenza nella stesura dei progetti e coinvolgimento  di tutti gli attori in campo per raggiungere un accordo sui criteri di intervento e manutenzione.  

Non ultimo, per quanto molto difficile da fare e valutare nei suoi risultati concreti, è necessario insistere e comunicare l’esercizio personale della responsabilità. La formazione di base fa parte degli scopi istituzionali delle Guide Alpine e delle Scuole di Alpinismo del Cai. Entrambi ci troviamo a contrastare una comunicazione “sensazionalistica” le cui conseguenze si vedono dopo ogni incidente di alta montagna che raggiunge i criteri della notiziabilità. 

 

Grazie,

Martino Peterlongo

 

L'ARTICOLO E' STATO PUBBLICATO SUL N. 18 DELLA RIVISTA CAI "LO ZAINO". CLICCA QUI PER LEGGERE LA RIVISTA 



Documenti da scaricare in PDF